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GRAN BRETAGNA: SI TORNA AL VOTO

Boris Johnson la spunta. Il 12 dicembre si consumerà un nuovo capitolo della saga “Brexit”

Dopo la quarta richiesta, con 438 voti favorevoli e 20 contrari (in forza anche dell’assenso dei laburisti di Corbyn), Westminster ha dato il via libera alla proposta di Boris Johnson di indire elezioni anticipate nel Regno Unito nel mese di dicembre. Si prospetta quindi l’ipotesi di un epilogo in una vicenda che aveva ormai assunto i connotati della narrazione epica.

Con il referendum del 2016 il Regno Unito si è spaccato, ma ha deciso, con il 51,9% dei votanti, di uscire dall’Unione Europea. Un percorso non ancora definito, difficile ed oscillante, che comporterebbe diverse conseguenze economiche e politiche. A tre anni dal risultato referendario si è ancora alla ricerca di accordi definitivi con Bruxelles, anche se vi sono sostenitori dell’uscita dall’Europa senza un accordo e soggetti che, invece, rendendosi conto dei rischi che originerebbe una simile decisione, cercano di mediare, anzi di rimediare, onde evitare di scaricare sulla popolazione costi maggiori di quelli che la stessa era tenuta a pagare quando faceva parte dell’Unione.
Certamente dallo slogan “Brexit subito” dei conservatori è passato molto tempo e la diatriba con gli europeisti britannici è ancora aperta, tant’è vero che questi ultimi non hanno abbandonato l’idea di un nuovo referendum per verificare se l’esito del verdetto popolare goda ancora della maggioranza del consenso o possa piuttosto essere ribaltato da un rinnovato e ritrovato interesse europeista.

Tuttavia l’ipotesi di un ripensamento pare difficile. Certamente, inizialmente, l’uscita della Gran Bretagna dall’UE ha destato interesse e scalpore. Poi, con il passare del tempo, l’interesse si è concentrato sugli accordi per evitare una separazione troppo traumatica.

Tanti sono i pro e i contro della Brexit e sicuramente un cambiamento politico così radicale segnerà la storia, poiché la quinta potenza economica mondiale, rendendosi indipendente dall’Unione, andrebbe a mutare gli equilibri esistenti fin dal secondo dopoguerra. Si restringerebbe la possibilità per i non britannici di entrare nel mercato del lavoro di Londra e vi sarebbero conseguenze di carattere economico, come la svalutazione della sterlina, l’aumento dell’inflazione, la crisi dei mercati e l’aumento del tasso di disoccupazione. Già nel 2017 la conservatrice Theresa May presentò numerose proposte per tentare di concordare delle modalità “morbide” di uscita e nel 2018 fu raggiunto un piano di transizione di ventuno mesi per evitare la “hard Brexit”, cioè l’uscita immediata del Regno Unito dai trattati e dalle istituzioni dell’Unione Europea. Tutti questi tentativi sono però stati bocciati in sede parlamentare.

In caso di nessun accordo – no deal – l’unico vantaggio per il Regno Unito sarebbe forse l’esonero dal pagamento di 39 miliardi di sterline, ma la svalutazione che si potrebbe innescare in Gran Bretagna, molto probabilmente, comporterebbe una più importante crisi economica. La Gran Bretagna è entrata a fare parte della comunità economica europea nel 1973, dopo le dimissioni di Margaret Tatcher, piuttosto critica per i contributi versati a Bruxelles. Il successore della “Lady di ferro”, John Major, firmò il trattato di Maastricht, avviando un periodo di distensione. Nel febbraio 2016, il primo ministro David Cameron negoziò un nuovo accordo con l’UE e scelse di indire il famigerato referendum. Le conseguenze di tale votazione furono le dimissioni di Cameron e la vittoria nelle primarie del partito conservatore di Theresa May, la quale divenne in seguito primo ministro. Quest’ultima nel 2017 andò ad elezioni anticipate, con l’obiettivo di rafforzare la propria maggioranza per poter godere di una maggiore legittimazione nelle trattative per la Brexit. Ma il partito perse le elezioni. Il resto è attualità, con le dimissioni di Theresa May e l’ascesa al potere di Boris Johnson. Di recente il parlamento britannico ha imposto a Boris Johnson di chiedere una terza proroga, rinviando così l’uscita dall’Europa almeno fino a gennaio 2020. Malgrado tutto Johnson è comunque intenzionato a raggiungere l’obiettivo ed ostenta sicurezza (forte di sondaggi che lodano avanti di 10 punti). Ora, con la convocazione di nuove elezioni, si apre un nuovo capitolo della saga.

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